L’immagine in evidenza è di Thomas G. da Pixabay
Durante gli incontri di laboratorio teatrale in una scuola primaria, mi è capitato di sentire un paio di insegnanti gridare, in modo isterico, ai bambini eccitati dal lavoro espressivo e dalla libertà creativa, questa frase che mi ha inquietato: “MA LA VOLETE CAPIRE CHE NON È UN GIOCO!?”.
Non è un gioco, cosa? Fare teatro a 6 anni?
Un mio problema
Devo confessare che spesso penso che “tutto” sia un gioco. O meglio, che ogni esperienza umana possa essere affrontata come un gioco. Si tratta del punto di vista da cui viene considerata e dall’approccio con cui viene vissuta.
Nel film di e con Roberto Benigni “La vita è bella” un padre ebreo, durante l’Olocausto e la deportazione nei campi di sterminio, fa credere al figlio di essere in un gioco.
Traduce eventi dell’orrore in elementi affrontabili da un bambino, ne coglie un lato intrinseco e lo presenta, in primo piano, a difesa dell’innocenza.

La stessa sensazione di avventura e divertimento, attraverso eventi drammatici e umanamente inaccettabili, sempre legati ad un periodo storico sul quale non si dovrebbe scherzare, trapela dalle pagine del libro “Un sacchetto di biglie” di Joseph Joffo.
Sono ancora un bambino?
In una pagina struggente, il protagonista si interroga sulla propria infanzia rubata dagli eventi.
Conosceva la guerra come azione di grandi uomini, nobile, pittoresca, esaltante, “che fa venire voglia di fare il soldato…”. Era la rappresentazione che emergeva dal suo libro di scuola, dal punto di vista di qualche “grande”.
Ma durante la fuga per sfuggire alla cattura nazista, il senso della guerra si imprime sul suo corpo con un colpo di canna di mitragliatrice sferrato da un soldato tedesco, che lo fa “frantumare” contro un muro.

Pagine dopo, il dodicenne Joseph dubita che i giochi dell’infanzia lo interessino ancora, si (e ci) chiede “Sono ancora un bambino?”.
Gioco kaputt.
Stavo scrivendo di maestre in ansia per lo spettacolo di fine anno e sono venute fuori le persecuzioni naziste… è grave, dottor Freud?
Forse si tratta di un tema per me scottante, che mi ribolle nel profondo: io lo leggo come spegnere la vitalità dei bambini per richiamarli ad un dovere discutibile, come incapacità di accompagnarli senza usare l’autorità e la forza, a suon di urla minacciose.
Curioso che il laboratorio teatrale fosse basato sulla storia di Peter Pan, santo patrono dell’infanzia, del sogno e della fantasia. La stessa scuola dove una bambina di un’altra classe mi aveva chiesto: “Ma Capitano Uncino lo deve fare per forza un maschio?”. La risposta è nell’articolo dedicato.
Esaltato dalla scelta della storia, capisco anche perché quella frase “MA LA VOLETE CAPIRE CHE NON È UN GIOCO!?”, a distanza di più di un anno, ancora mi urta come la canna di un fucile alla schiena.
Game desing
Se non hai mai sentito parlare di gamification e di game design (ma al giorno d’oggi mi sembra strano), puoi pensare se nel tuo portafogli o in un’app del cellulare tieni almeno una carta di raccolta punti di un supermercato.
Elementi di gioco: compiere una missione (comprare cose), guadagnare punti (punti fidaty, fragola, brugola, ecc.) e ricevere un premio (uno sconto o un set di 6 bicchieri da tavola + 14,98€ da aggiungere).
La carta è studiata con una grafica piacevole e può far parte di un altro gioco: collezionale tutte. Poi arriva un’app che permette di supereare i limiti fisici del portafogli e puoi portare con te, nel cellulare, carte infinite.
Naturalmente dietro questa “gratificazione” per l’acquirente e per il collezionista si nascondono la fidelizzazione e la raccolta di importanti dati e abitudini di acquisto dei clienti e sofisticate strategie di vendita.
Le applicazioni del gioco, oltre al campo, a volte anche subdolo, del marketing possono essere davvero utili e impensabili.
Chi va piano, va sano e…
Yu-kai Chou, un game designer Taiwanese/Americano, nel suo libro sulla gamification, tra i vari esempi, racconta di un esperimento fatto nel 2010, a Stoccolma, per incentivare gli automobilisti a rispettare i limiti di velocità.

Il principio del gioco è semplice: tutti gli automobilisti che transitano su quel tratto di strada sono considerati giocatori.
Tutte le targhe vengono fotografate, chi non rispetta il limite può prendere una multa, chi lo rispetta viene sorteggiato per aggiudicarsi un premio in denaro, una quota delle multe pagate dai trasgressori.
Risultato: per il periodo di sperimentazione, diminuzione della velocità media delle auto del 22%. Spinta postitiva alla motivazione anzichè minaccia di una pena. Educativo?
The Speed Camera Lottery è solo un esempio di come il gioco possa avere rilievo nel cambiamento di abitudini delle persone.
Aggiustare il mondo
Cito solo un’altra super esperta di game design, di professione futurista (non nel senso della nostrana corrente artistica, ma nel senso che lavora per l’Institute for the Future di Palo Alto, California): si chiama Jane McGonigal.
Il suo intento dichiarato è quello di riparare la realtà, che si è rotta (cambiamento climatico, individualismo, guerre, pandemia, …), facendo dei giochi.
Nel suo libro La realtà in gioco spiega il suo punto di vista e riporta moltissimi esempi di applicazione dei principi del game design per il miglioramento dei più svariati ambiti della vita umana.

Mi sono appassionato molto a questi autori e ho riscoperto il valore di quel mio pensiero, a volte osteggiato dalle persone “serie”, che tutto possa essere affrontato come un gioco.
Ogni esperienza umana può essere gamificata, anche la morte (roulette russa?) rientra fra gli elementi di alcune proposte dal carattere ludico; alcune challenge che tanto preoccupano ultimamente…

A Teshie-Nungua, in Ghana, puoi far realizzare e comprare dalla Kane Kwei Carpentry una bara a forma di pesce, di aeroplano, di macchina fotografica, di ragno. Un ultimo costume per dire addio alla scena della vita.
Allora perché, anche se si sta avvicinando il momento dello spettacolo davanti a tutti i genitori della scuola e i bambini dovrebbero provare seriamente lo spettacolo, perché devono capire che non è un gioco?
Perché quella parte non può rientrare nel gioco?
Ma recitare, in inglese, non si di dice to play?
Fare teatro
Mi sembra sempre di sminuire la cultura italiana quando inizio un laboratorio teatrale e chiedo ai partecipanti se sanno cosa vuol dire “fare teatro”.
Qualcuno dice che si tratta di recitare. Giusto. Ma, visto che faccio proposte di improvvisazione teatrale devo andare oltre e sconfinare nel mondo anglosassone che ha parole per me più utili per spiegare in cosa consiste “fare teatro”.
Insisto per avere altre risposte. Qualcuno dice sottovoce “tuat”. Chiedo di ripetere ad alta voce, che forse ha indovinato. La voce di prima si fa coraggio: “TO ACT”.
Sì! Arriva il corpo, il movimento, l’azione con o senza la parola.

E poi?
“Una parola che ha molti significati, che riguarda anche la musica…” accenno.
“TO PLAY!” grida esaltata una ragazza che ha alzato mano e braccio, tirando tutto il corpo in un salto, non riuscendo a trattenere la risposta esatta prima di avere concessa la parola.
Quel verbo inglese è un tesoro di significati per un laboratorio teatrale: vuol dire praticare, scherzare, impersonare, rappresentare, traduce anche recitare, si riferisce a suonare e, come un perfetto riassunto di tutti le altre voci, significa giocare.
Ansia da prestazione
Mancavano due incontri allo spettacolo finale in presenza di tutti i genitori e la fase creativa doveva necessariamente lasciare posto alla ripetizione e alla memorizzazione, faceva perte del contratto per quel tipo di teatro.
Capisco le insegnanti. A volte si trovano con troppi bambini in classe (questa è una malattia di parte della scuola italiana), molti bambini non ascoltano (problema di educazione? altri disturbi? niente di interessante?).
I bambini nel gioco di teatro di improvvisazione sentono l’ebbrezza della libertà e quando hanno capito come funziona, che possono inventare insieme quello che vogliono, chi li ferma più? (questo è lo scontro tra due approcci teatrali differenti).

Quindi gli elementi in gioco sono molti:
- l’ansia di completare la scena e di avere pronta la rappresentazione;
- la preoccupazione di fare bella figura con i genitori;
- l’obiettivo di insegnare ai bambini a controllarsi e a stare in una struttura;
- lo stress di avere tutti i giorni a che fare con un gruppo fuori misura, esuberante, agitato, proveniente dal contesto della scuola dell’infanzia;
- altre questioni personali e profonde.
Ma perchè spiegare ai bambini la necessità di stare attenti, di seguire le istruzioni, di ricordare la propria parte, gesti e parole, con quell’espressione: “non è un gioco”?
L’importanza delle parole
In una scuola americana, (chiedo scusa, appena mi ricordo dove l’ho letta aggiungo il riferiemento preciso) per favorire l’integrazione dei nativi americani, gli insegnanti avevano cambiato le parole.
Certo, prima delle parole c’è un valore educativo condiviso. Invece che indicare gli errori dei bambini dicendo “hai sbagliato”, hanno iniziato a dire “non hai ancora imparato”. Come suona?
Risultato: maggiore integrazione dei bambini nativi e migliori risultati scolastici.
Ad un certo punto del mio percorso formativo mi sono accorto che mi interessava molto più il momento in cui nasce lo spunto teatrale, piuttosto che tutto il lavoro di fissazione dell’opera in un copione e in una messa in scena.
Nell’improvvisazione tutto è spunto teatrale che nasce sul momento. Drammaturgia simultanea.
Ed è un gioco. Dall’inizio alla fine. Soprattutto per i bambini che, prima degli 8 anni sono più interessati e pronti all’esplorazione del contesto espressivo che alla creazione di una struttura da fissare e ripetere di fronte ad un pubblico.
Lo schema
“Noi abbiamo bisogno dello schema, della scaletta, sai come sono le maestre” mi dice la maestra fermandomi sulle scale quando arrivo a scuola per iniziare il mio lavoro.

Anche le formiche hanno bisogno di uno schema per trovare la strada, avanti e indietro, tra il formicaio e una fonte di cibo; anche le api hanno bisogno di uno schema per muoversi come sciame.
Si tratta dell’intelligenza dello sciame, che utilizzano anche gli attori quando improvvisano in gruppo, lo spiego in questo articolo: “A scuola con le termiti: imparare a collaborare senza “condottiero”.
Anche io ho bisogno dello schema e della scaletta, quando non ci sono le condizioni per lavorare come uno sciame: 10 sezioni, 10 ore di attività per sezione, più di 200 bambini dai 6 ai 10 anni, 10 scene in sequenza, il coro, le canzoni e la colonna sonora da integrare, spostamenti, luoghi di sosta, oggetti di scena, costumi…
So che hanno bisogno di provare e riprovare. Ma so anche che se un bambino impara ad ascoltare e ad accorgersi del contesto, della storia in cui si trova, capisce autonomamente quando è il suo momento di entrare e di uscire dalla scena.
Se non si ricorda una parola o una frase a memoria, ma ha imparato a cogliere il senso della vicenda e a reagire coerentemente al suo personaggio, sarà sempre giusto e correrà il rischio di portare una nota di freschezza e di vitalità in una recita scolastica.
Reidratare
Il libro al quale ho collaborato: Improvviso Educativo, per una didattica reidratante e questo blog sono dedicati appositamente alla rivitalizzazione di un approccio, rigido, eccessivamente schematico e strutturato.
C’è una questione che, per la mia esperienza tra laboratori teatrali per l’infanzia e la formazione professionale per adulti, mi appare paradossale.
I bambini nella scuola dell’infanzia sono per lo più liberi, creativi, collaborativi, propositivi, smontano e rimontano il mondo che hanno a portata di mano, giocano concentrati per ore, focalizzati a spostare una montagna di sabbia nel cortile, corrono, danzano, cantano, esprimono, sono pronti, reattivi.
Poi succede qualcosa e li ritrovo, adulti e imbarazzati, in un’aula di formazione dedicata al team building, dove il referente mi dice che non riescono a fare squadra, è tutto pesante e stressante, hanno perso la motivazione e hanno bisogno di alleggerire, di giocare.
E la dirigente dell’istituto comprensivo, mi chiama e mi chiede la stessa cosa per un gruppo di insegnanti, per lavorare sul tema della mediazione dei conflitti interpersonali: “però, falli muovere, falli toccare, usa il teatro, hanno bisogno di leggerezza”.

Forse nella vita hanno incontrato e incontrano troppe persone che insistono nel dire: “MA LA VOLETE CAPIRE CHE NON È UN GIOCO!?”.
Quante fatine dovremo avere ancora sulla coscienza prima di capire che tutto può essere un gioco?
Maturità dell’uomo: significa aver ritrovato la serietà che da fanciulli si metteva nei giochi.
Friedrich Nietzsche
…scusate, dimenticavo questo:




