L’improvvisazione teatrale è una tecnica che fornisce abilità personali, al servizio di un’impresa collettiva, per la realizzazione di scene teatrali di contenuto aperto, gli attori hanno assoluta libertà: cosa fare quando entra in scena Mussolini?
Un’occasione prepuzia
Più volte mi è capitato, lavorando con classi di scuole superiori, in contesti professionali e tecnici (variabile sociologica?), che i ragazzi, all’idea di poter interpretare di fronte agli altri un personaggio famoso, decidessero di vestire i panni di Benito Mussolini.
Mi è appena successo in una classe e ho notato che la dinamica che precede l’ingresso sulla scena del personaggio famoso è diversa da quando qualcuno porta Spider Man, Napoleone o Greta Thunberg.
Per avere un’idea di come funziona il gioco puoi leggere l’articolo dedicato: Il gioco del personaggio famoso.
In teoria ciascuno dovrebbe pensare, nella propria testa, ad un personaggio famoso e poi uscire di fronte agli altri per rappresentarlo staticamente.
Nel caso dell’evocazione del Gran Pernacchia (aaaah, finalmente ho un articolo che parla del Duce, così posso citare Gadda a piacere)

dicevo, nel caso di menzione del Provolone c’è stato il guizzo di uno sguardo, un gruppo di ragazzi è stato percorso da un’onda di eccitazione, come a sfregarsi le mani per l’occasione propizia (o prepuzia, direbbe Alessandro Bergonzoni).
Collaborazione istantanea
La collaborazione, che è obiettivo e risultato di svariati esercizi di improvvisazione teatrale, è stata istantanea.
Ho cercato di richiamare alla regola che non dovessero mettersi d’accordo prima, ma il flusso di coinvolgimento era già partito.
“Io sono Mussolini!” ha dichiarato il primo uscito in scena, posizionandosi a gambe divaricate, pugni chiusi appoggiati ai fianchi e gomiti all’insù.
“Io sono il saluto romano!” è arrivato poi il secondo, nascondendosi dietro la schiena del Gran Somaro e facendo apparire solo il braccio teso con la mano aperta.
A seguire: il cappello, la dichiarazione di guerra e altri elementi minori.
Eccoli lì, solo maschi, tutti sorridenti e scherzosi, coinvolti nell’esercizio (ne approfittano intanto per mollarsi qualche calcio e qualche pugno, data la vicinanza fisica e la richiesta di immobilità fatta agli attori, che li rende vulnerabili al gioco manesco).
Una statua moderna, fluida, con un’energia incontenibile, che parla di relazione stretta tra questi ragazzi, che mette in scena il toccarsi tra maschi, anche se in modo apparentemente violento.
Siamo gay?
Pochi minuti prima, durante il gioco di presentazione e di introduzione al laboratorio, lo stesso sottogruppo della classe aveva fatto emergere la parola “gay” e suggestioni sulla possibilità di guadagnare una somma ingente di soldi vendendo il proprio “didietro” (prof, lei lo farebbe per 10 milioni di euro? mi ha chiesto chi ha lanciato l’idea).
Sempre con loro ho osservato un gesto per me inedito: un ragazzo che accarezza dolcemente i capelli nella zona della nuca di un compagno.
Non entro in questioni psicanalitiche, ma mi sembra che appaiano temi evolutivi pressanti per l’età e un concentrato di occasioni educative: la questione di genere, lo stereotipo sessuale, la ricerca dell’identità, i modi in cui si esprime pubblicamente la relazione di affetto tra maschi, sempre a rischio di pregiudizio omofobo, la paura del ritorno del fascismo tra i giovani, l’uso della violenza, l’aggressività, e così via.
Tra le rovine di Pompei
Non è un caso, quindi, che il tutto sia riassunto nel simbolo del Priapo Maccherone (caro Emilio Gadda), tanto più che Priapo, per chi non lo conoscesse, è questo signore (dio?) qui:

Ricordo nitidamente, a distanza di 40 anni, quando, con sguardo preadolescente, ho scoperto questa rappresentazione visitando le rovine di Pompei, con mia madre di fianco a me, che se la rideva ed esorcizzava l’imbarazzo con qualche battuta delle sue.
L’espediente dell’esercizio del personaggio famoso e tutto il groviglio di evocazioni successive deve essere particolarmente succulento per un gruppo di adolescenti irrequieti e provocatori, che si ritrova spesso inchiodato al banco, dalla minaccia di nota e con l’urgenza del programma curricolare da completare, reprimendo i compiti evolutivi dell’adolescenza che impazzano sottopelle.
Ora si pone un bivio, perché le questioni sono complesse.
In questo articolo proseguo sul tema della preoccupazione per il neo-fascismo. Per seguire, invece, il tema della mascolinità e dell’omosessualità puoi andare a leggere l’articolo (in arrivo): Posso essere gay?
Oppure leggere come il tema emerge in una seconda elementare discutendo se Capitano Uncino lo deve fare per forza un maschio; o che fine ha fatto tra le prove di uno spettacolo in una scuola media quando una ragazza ha portato cose di cui non si parla mai.
Ok, riprendiamo con il Maramaldo.
Il ritorno dei Paninari
Quando ero alle scuole medie, negli anni ’80, avevo un vicino di casa, compagno di giochi di quartiere. Lo invidiavo un po’ perché portava tutti i vestiti firmati che confezionavano lo stile paninaro.
Era mio amico, giocavamo insieme per la strada e ricordo precisamente di aver visto i tacchi delle sue Timberland schioccare tra di loro, mentre il suo braccio, vestito di Bomber Avirex, si alzava nel saluto romano.
Collego solo ora, ripensandoci a distanza di tempo e con una veloce gugolata che tra paninari (i nuovi galli) e fascismo c’è un legame.

Il mio ricordo serve per dire che le cose non sono cambiate di molto e probabilmente anche le motivazioni alla riproposizione di gesti e atteggiamenti: uno scimmiottamento o scelta politica consapevole?
Il fascismo eterno
Qualche anno fa, una scuola superiore mi ha contattato per chiedermi una proposta teatrale per La giornata della Memoria.
Ho proposto uno spettacolo di Teatro Forum, interattivo, con gli spett-attori che entrano in scena nei panni del protagonista per mostrare in azione le proprie ipotesi di soluzione del problema rappresentato.

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Il titolo dello spettacolo era “Il fascismo eterno”, preso a prestito da un libro di Umberto Eco, dove l’autore mette in guardia i lettori dal pericolo del continuo serpeggiare di comportamenti che, nel periodo del ventennio, sono identificati chiaramente come “fascismo”.
Oggi e domani, spesso nascosti da altri nomi, continuano e continueranno a ritornare se non vengono smascherati e contrastati, costantemente.

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Abbiamo seguito il filo dei comportamenti “fascisti” nella vita quotidiana attuale, dove ragazzi della scuola superiore, possono trovarsi a vivere dinamiche che potrebbero sembrare di altri tempi.
E quando abbiamo chiesto se le scene, ambientate in un bar di quartiere, nell’aula scolastica, a casa, in famiglia, fossero verosimili, non c’è stato dubbio: tutto molto plausibile.

I ragazzi hanno partecipato e giocato in scena, hanno ragionato teatralmente su come affrontare il problema e hanno sperimentato le proprie personali soluzioni, nonostante la preoccupazione iniziale degli insegnanti “e se nessuno sale sul palco?” (in 25 anni di esperienza con il Teatro dell’Oppresso non mi è mai successo).

La scuola dove siamo stati ospitati è un istituto professionale che raccoglie studenti da vari comuni tra le valli prealpine. Si tratta di una dimensione che potremmo definire “periferica” e il contesto culturale e sociale è complesso.
Sempre nella stessa scuola “periferica”, che è un istituto emblematico, con una dirigente eccezionale, l’anno scorso, durante gli incontri del progetto di contrasto al Cyberbullismo “Le voci di Asmodeo”, in una classe di soli maschi, ho ritrovato dinamiche simili a quelle che descrivevo all’inizio dell’articolo.
Espressione dell’affettività tra maschi, riferimenti ostentatamente omofobi e modalità manesche di relazione (avevano anche organizzato un fight club clandestino nel parco pubblico).
Questi ingredienti, se lasciati alla sola competenza dei ragazzi, senza la facilitazione di un confronto costruttivo tra pari, senza la possibilità di un percorso educativo accompagnato dall’adulto, che spesso, a scuola, ha paura ad entrare in certi temi, rinuncia o non ha il tempo e la formazione necessari, questi ingredienti possono comporre la base di una torta velenosa.

Io li incontro in un percorso di 4 incontri da 2 ore ciascuno, quindi 8 ore nelle quali, appena chiedo di spostare i banchi contro il muro e di fare un cerchio di sedie, succede il finimondo e si ritrovano a guardarsi in faccia e finalmente a dialogare.
Spesso la disposizione faccia a faccia a faccia a faccia a faccia a faccia fa emergere velocemente i conflitti latenti. Iniziano così ad apparire le reali dinamiche relazionali del gruppo, quelle dell’intervallo, dei corridoi, del cortile, dei bagni, dei social, che spesso, non sono quelle dell’aula durante la lezione con i docenti (vengono in mente le osservazioni di Mario Lodi, un maestro non noioso).
Il Mascelluto ha fatto anche cose buone
Nell’ambito di un progetto sulla coesione sociale di un quartiere di Monza, durante un’intervista che stavo facendo ad alcune persone in un bar sui problemi comuni di quella zona, mi è capitato di raccogliere il pensiero di un signore anziano che si lamentava dei mezzi di trasporto pubblici: “se ci fosse stato Lui (il riferimento è naturalmente al Gran Cacchio) ci sarebbe stato un pullman che portava direttamente vicino al Municipio e sarebbe arrivato in orario!”.

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Ecco cosa circola e cosa fatica a crollare nel pensiero di molte persone. Il nome del Kuce è ancora presente, richiamato, pensato, ricordato, rimpianto.
Credo che i ragazzetti del gioco del personaggio famoso, evocando lo Scacarcione Mago, scimmiottino inconsapevolmente comportamenti di cui sanno poco, che imitano un po’ a caso, per provocare, per attirare l’attenzione su altro.
Mussolini Decadence
L’anno successivo, alla richiesta di una nuova proposta per la Giornata della Memoria sempre per quella scuola, ho sfoderato un progetto che stava nel mio cassetto da qualche anno: Mussolini Decandence.
Volevo chiamarlo, ingenuamente, I love Mussolini ma le donne dell’ANPI a cui ho chiesto un parere me l’hanno sconsigliato, mostrando disgusto al solo pensiero.
Avevo sentito via radio la recensione di un testo che mi è rimasto in mente: Mara una donna del novecento: l’evoluzione del fascismo vissuto dal punto di vista di una bambina/ragazza/donna fascista.

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Questa volta lo spettacolo non era interattivo, ma era accompagnato dalla band Surfin Claire and the Whisky Rockers, una band rockabilly con repertorio di canzoni anni ’50, specialmente dedicato alle più grandi artiste donne rockabilly del panorama americano.

Mi sembrava un buon connubio, una colonna sonora preludio della liberazione.
Immergersi tra speranze e desideri delle donne fasciste e desideri e speranze delle giovanissime cantanti americane, ha portato comunque, ancora e solo ad un imbuto, un bottleneck: vuole sempre comandare un Priapo Esibito.
Quando entra in scena Mussolini
Quando entra in scena Mussolini si allunga un’ombra sul presente.

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Bisogna fermarsi a raccontare, a spiegare ai giovani la verità, esporli alle testimonianze, ai fatti, farli scontrare con l’immagine di un Pupazzo che di fronte al nemico non si batte coraggiosamente per la famiglia e per la patria, ma scappa con l’amante.
Un Priapo Concionante, trovato dai partigiani, “eroicamente” nascosto sotto la panca del camion n. 34.
Vietare un gesto non serve a far cambiare idea alle persone. Bisogna innescare il dialogo, aprire le questioni, sviscerarle, dedicare del tempo all’ascolto e alla comprensione,
Applicarsi a definire per quale motivo è e può essere famoso un personaggio.
Bisogna accompagnare i giovani in una visione critica e intelligente, combattere l’ignoranza e la ricerca di sempre più facili e furbe scorciatoie.
Si fa fatica ad essere umani, ma ne vale la pena.
“… L’Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: “Voglio riparire Auschwitz, voglio che le camice nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!” Ahimè, la vita non è così facile. L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo. …”
Umberto Eco




